Da direttore di una testata non locale ma iper-locale (di quartiere forse la definizione più calzante) quando mi sono imbattuto in questa notizia ho cominciato a leggere perché l’ho trovata molto interessante. In Australia i piccoli editori di testate giornalistiche hanno costretto Google e Facebook a sedersi al tavolo e contrattare per la pubblicità che i colossi social generano.

Per realtà piccole o piccolissime non si può prescindere dagli spiccioli che arrivano da Larry Page e Mark Zuckerberg per la sopravvivenza, che bastano appena a pagare i server. I rapporti di forza sono talmente sbilanciati che i colossi possono permettersi di diventare “sovraeditori” (mi si conceda il neologismo) potendo disporre della totalità del mercato pubblicitario e spendendo cifre irrisorie. Su una testata on line infatti gli introiti possono essere generati soltanto da banner o articoli redazionali a pagamento.

Nel continente dei canguri però hanno agito con veemenza. Lo Stato “costringerà le Big Tech a pagare i suoi media per pubblicare contenuti di notizie al fine di proteggere il giornalismo indipendente. In base alla legge di imminente approvazione, “Facebook e Google Big Tech dovranno concordare i pagamenti per i contenuti che appaiono sulle loro piattaforme con editori ed emittenti locali“. Insomma una svolta epocale.

Laddove non si giunga a un accordo, “a decidere sarà un arbitro nominato dal governo australiano che prenderà una decisione per loro”. E viene da pensare che i colossi non siano così sicuri di spuntarla sempre.

E pure in Francia qualcosa si sta muovendo, visto l’esempio di Le Monde (leggi: Google paga abbonamenti per Le Monde e versa 50 milioni l’anno agli editori francesi), segno che allora il potere contrattuale c’è se il soggetto da contrapporre è il governo di una nazione. Oltralpe hanno però intrapreso una strada che rischia di lasciare il mercato ad appannaggio quasi esclusivo dei grandi gruppi editoriali che già godono di introiti pubblicitari – per quanto in calo – e di abbonamenti.

Quali conseguenze potrebbe avere una decisione del genere in un paese come l’Italia? Provando a riportare nel nostro Paese l’esempio australiano, le realtà piccolissime, spesso soggette o proprio vittime di malavita, malaffare, così facendo potrebbero sfilarsi dalle sovvenzioni elargite dal potente di turno per poter offrire un’informazione libera e magari retribuita dignitosamente. Ecco perché a Palazzo Chigi si dovrebbe cominciare a pensare a qualcosa di simile in un momento come questo in cui l’informazione a ogni livello cammina sul ciglio del burrone.

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