Il giornalista che lavora da casa può rientrare nella categoria del collaboratore coordinato e continuativo? Lo “smart working” può essere considerato come un indice di rapporto autonomo occasionale? Sulla tematica oggi di stretta attualità si è pronunciato il Tribunale di Roma in merito ad un decreto ingiuntivo ottenuto dall’Inpgi per il recupero di contributi previdenziali non versati da una società editoriale che si è opposta. La pronuncia risale all’ottobre dello scorso anno, quando il Covid-19 era un problema solo cinese.

Il caso riguardava la posizione della giornalista G. V., per la quale l’ente previdenziale rivendicava il versamento dei contributi per un rapporto che definiva di collaborazione coordinata e continuativa. Di contro, la società editoriale  affermava la natura puramente occasionale del rapporto sulla base di vari presupposti, quali il fatto che la giornalista lavorasse da casa, si recasse in redazione solo per le riunioni, che la sua attività fosse limitata a «poche ore mensili», consistesse nella pubblicazione di notizie da lei stessa scelte e che non fosse coordinata dalla committente.

Il giudice capitolino accertava i requisiti della personalità della prestazione e della continuità dichiarando di nessun  valore il fatto che l’impegno della  giornalista «si sia concretizzato in poche ore, lavorando da casa». Inoltre, rilevava il giudice, G. V. percepiva un compenso mensile. Il Tribunale ravvisava nel rapporto lavorativo, per come si era svolto, anche il requisito della coordinazione derivante da un protratto inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale o, comunque, nelle finalità perseguite dal committente con ingerenza di quest’ultimo nell’attività di G. V.

Nel caso del quale ci stiamo occupando, la presenza delle direttive emerge da alcune e-mail prodotte dall’Inpgi, dalle quali si evince che la legale rappresentante della società editoriale forniva istruzioni riguardo le interviste ed i comunicati stampa da redigere. Tali comunicazioni venivano poi confermate dalle prove testimoniali, le quali indicavano la giornalista quale «referente» della società per un  determinato  progetto, oltre al fatto di curare un sito web della committente. La sentenza stabilisce che l’inserimento aziendale di G. V. dipendeva proprio da queste circostanze. In conclusione, secondo il Tribunale, sull’attività della giornalista «la società non poteva che fare affidamento».

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