La normativa prevede che il segnalante si rivolga ai mass media per la divulgazione degli illeciti quando non abbia ricevuto riscontri alla sua denuncia o in altri casi divenendo “fonte giornalistica” con le conseguenti tutele

(da Citywire)

Il whistleblowing nelle banche e nelle reti italiane non funziona. Così titolava un articolo apparso nel maggio 2018 su Citywire nel quale si dava notizia che la First Cisl, per bocca del suo segretario generale dell’epoca Giulio Romani, denunciava il basso numero di segnalazioni nell’ambito bancario che riteneva dovuto all’inadeguatezza delle protezioni previste dalla normativa.

L’anno dopo vedeva la luce la direttiva 1937 alla quale l’Italia si è adeguata con il decreto legislativo numero 24 del 10 marzo 2023 che ha imposto di mettere a disposizione del lavoratore il canale interno per le segnalazioni.

Il decreto qualifica il whistleblower come colui che “segnala, divulga ovvero denuncia all’Autorità giudiziaria o contabile, violazioni di disposizioni normative nazionali o dell’Unione europea che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato, di cui sia venuto a conoscenza in un contesto lavorativo pubblico o privato”. Del tutto escluse le “contestazioni, rivendicazioni o richieste” relative al proprio rapporto di lavoro.

L’ente privato, sia in considerazione delle sue dimensioni e del settore nel quale opera, ha l’obbligo di attivare il canale interno di segnalazioni “sentite le rappresentanze o le organizzazioni sindacali” con modalità tali da garantire la completa riservatezza sia della tematica che dei soggetti coinvolti. Banche e reti sono tra i soggetti destinatari del provvedimento tanto è vero che tra gli illeciti da segnalare rientrano quelli in materia di “servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo” nonché, quello generale, di “protezione dei consumatori”.

La segnalazione al datore di lavoro, al ricorrere di determinate condizioni, può essere evitata ed inoltrata ad un soggetto esterno quale può essere l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (Anac). A tale Autorità il whistleblower può rivolgersi quando non abbia ricevuto un riscontro alla segnalazione al datore di lavoro.

Infine, la normativa prevede che il segnalante si rivolga ai mass media per la divulgazione degli illeciti quando non abbia ricevuto riscontri alla sua denuncia o in altri casi divenendo “fonte giornalistica” con le conseguenti tutele.

Inutile nascondere che le remore alla denuncia nascono dal timore di atti di ritorsione così come messo in rilievo dal sindacato. Il decreto legislativo 24/2023, sulla scia della direttiva europea, prevede delle misure di tutela rafforzate a favore del segnalante, dei suoi familiari e dei“ facilitatori” ovvero i colleghi di lavoro che hanno aiutato il segnalante nella sua azione. E’ anche previsto che l’Anac apra un’istruttoria qualora venga a conoscenza di comportamenti ritorsivi anche nei confronti di un ente. Se la ritorsione si attua nei confronti di un lavoratore, l’Autorità informa l’Ispettorato Nazionale del Lavoro e, qualora la violazione sia accertata, irroga all’ente delle sanzioni amministrative. Le misure di protezione sono assicurate a condizione che alla base della denuncia via siano dei “fondati sospetti” e vengono a cadere quando il whistleblower sia stato condannato anche solo in primo grado per i reati di diffamazione o calunnia.

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